ASPETTI CULTURALI DELLA FESTA DE LI “DDU' DE LUJU”
(OVVERO LA FESTA DELLA CONA)

La festa de li ddu' de Luju o la festa della Madonna della Icona, si svolgeva ogni anno il 2 Luglio in località forca di Gualdo di Castelsantangelo sul Nera provincia di Macerata. In questa località, al confine tra Umbria e Marche si trova una chiesetta dedicata alla Madonna dell’ Icona e un monumento dedicato ai Pastori. Ora la ricorrenza viene celebrata la prima Domenica di luglio, da poche persone ed in forma molto ridotta rispetto al passato. La località si trova a circa cinque chilometri da Castelluccio di Norcia e a circa otto da Gualdo. In questa chiesa si voleva ringraziare la Madonna per aver fatto terminare una lunghissima guerra di confine tra i Nursini e Vissani. Da studi più recenti (TESTA, 2006) emerge che i primi legami della comunità di Castelluccio di Norcia con la Madonna delle Grazie della Cona o dell'Icona risalirebbero addirittura agli albori del primo insediamento del Castello, all'indomani della donazione della Sacra Icona Greca fatta da Federico Barbarossa alla Chiesa di Spoleto nel 1185, sotto il ducato di Guelfo VI. Per ricordare l'importante donazione della Sacra Icona e della sua incoronazione ricorrente il 2 luglio vennero fatte costruire nei valichi di confine alcune piccole edicole in pietra con l'immagine della Madre di Dio dipinta da onorarsi possibilmente proprio in questo giorno.
Era la festa più sentita del popolo castellucciano e gualdese perchè era anche la festa che sanciva il termine di rientro dalla transumanza in montagna. Ogni Castellucciano che si recava a servizio con i mercanti in maremma concordava che per il 2 luglio doveva essere tornato a Castelluccio. Nei giorni precedenti la festa, ogni ragazzo castellucciano andava in cerca dei cavalli più belli, dei finimenti più decorati, di moresche, di quadrappe per abbellire la propria cavalcatura che il giorno “de li ddù de luju” avrebbe montato per recarsi alla Cona. Il due luglio a mattina tutti partivano verso la destinazione, chi in groppa al cavallo, chi al mulo, chi all’asino, chi a piedi. A piedi erano soprattutto le donne, in particolare le ragazze. Queste facevano di tutto per rimanere indietro in modo di essere notate dai loro amorosi. I ragazzi più giovani, in groppa ai loro cavalli, gareggiavano tra loro lungo il tragitto che porta alla Cona per farsi notare dalle loro ragazze, alle quali mostravano la loro abilità nel cavalcare e gli promettevano di vincere, in loro onore, la corsa della Cona, imitando i cavalieri Medievali che dedicavano alla dama amata la vittoria al torneo (quasi tutti gli uomini di Castelluccio e anche qualche donna delle generazioni precedenti la mia conoscevano a memoria la Gerusalemme Liberata l’Orlando Furioso il Guerrin Meschino ed altri poemi).
Giunti a mezza costa, ci si fermava, si aspettava che tutti fossero arrivati e, con gli stendardi sacri spiegati al vento, si aspettava la gente di Gualdo. Si formava un unico corteo e si andava alla chiesetta per celebrare la Messa.
I vergari, capi delle masserie che stanziavano nell’altopiano, sia quelli della parte castellucciana sia quelli del versante vissano, il giorno del 2 di luglio esentavano il personale dai lavori e mettevano a loro disposizione le cavalcature della masseria, vi era l’usanza che per chi partecipava alla festa e, ascoltava la Santa Messa, pur non prestando lavoro non perdeva la paga di quel giorno.
La mattina del 2 luglio, ogni vergaro era vestito a festa; cappello nuovo a falda larga, giacca di velluto o “quadriè”, gilet della stessa stoffa della giacca, vistosa catena d’argento che partiva da un taschino all’altro dove si agganciava all’orologio, gambali nuovi e speroni lucidi, cosciali nuovi di pelle di capra finemente lavorati dal suo buttero durante l’inverno in maremma. Il mularo, o cavallaro, gli preparava la cavalcatura più bella e la sellava con i finimenti più nuovi e ricchi della masseria. Tutti gli uomini della masseria si vestivano a festa con i loro costumi da pastore, chi li possedeva indossava i cosciali di pelle di capra, facendone sfoggio alla festa della Cona. Nei giorni precedenti la ricorrenza un frate confessore del convento di Sant’Agostino faceva il giro degli stazzi in groppa al asino messo a disposizione del vergaro per confessare i pastori mondando le loro anime dai peccati. I pastori che non sapevano scrivere approfittavano del frate, che sotto dettatura, scriveva alla loro famiglie. Questo aveva in dono, per i servizi resi una forma di formaggio o una ricotta secca salata. I pastori dei sibillini erano molto legati ai frati di Sant’Agostino e ai frati dell’isola Tiberina dell’Ospedale Fatebenefratelli. Ad essi si rivolgevano quando avevano bisogno di cure per il corpo o per l’anima. Il vergaro, nei giorni prima della ricorrenza, chiamava nel suo stazzo il maniscalco di Castelluccio, o di altro paese, per far cambiare o ferrare le cavalcature, nonché tagliare i capelli e le barbe ai suoi pastori (la ricorrenza era anche un occasione per curare il corpo esteriormente e spiritualmente). Tutti insieme, pastori con vergaro in testa, si recavano alla Cona dove spesso li attendevai il padrone della masseria che veniva attorniato e scortato per tutta la permanenza presso il luogo della festa, anche perché questo signore portava dalla tenuta di maremma alcune “cupelle” di vino che offriva fino ad esaurimento ai suoi pastori. Questo signore di campagna teneva particolarmente a mostrare a tutti che la sua azienda era florida e prosperosa e che gli uomini al suo servizio erano ben in salute e puliti, rispettosi delle leggi divine e della buona creanza. Il padrone della masseria era, in qualche modo, ritenuto responsabile dell’educazione e del comportamento degli uomini che erano al suo servizio.
Il mularo, o cavallaro, riponeva particolare attenzione alla cavalcatura del vergaro, in quanto questa cavalcatura veniva montata da lui al momento della corsa dei cavalli che si faceva nel pomeriggio. Vincere la corsa portava prestigio alla sua masseria, ma ci teneva soprattutto perché il padrone o il vergaro gli avrebbe dato un premio in danaro o offerto qualche bicchiere di vino e qualche sigaro.
Finita la messa, iniziavano le manifestazioni popolari; canti, stornelli, gare di morra, saltarello. Spesso i confronti erano vivaci e a voce alta, ma mai offensivi. Ci si confrontava con i vissani nei giochi della morra, nella recita di stornelli o quartine e nella famosa corsa dei butteri. I confronti avvenivano sia con i vissani che con i pastori delle masserie, spesso forestieri. Castellucciani e vissani trattavano i pastori a servizio dei mercanti con superiorità. Sia i castellucciani che i castellani (di Castelsantangelo sul Nera) e i Quallani (Gualdesi), quasi tutti piccolo-medi proprietari di pecore, si consideravano con dignità e orgoglio uomini liberi, al pari dei Torlonia, dei Gaetani, degli Odescalchi, degli Orsini (grandi latifondisti proprietari di tenute nell’ agro-romano e di migliaia di pecore che in primavera transumavano in montagna).
A mio ricordo, i vissani erano più abili di noi nella poesia e nel canto degli stornelli; noi eravamo più forti nella morra e la corsa dei cavalli è stata sempre vinta da castellucciani.
Poco tempo dopo finita la Messa, si consumava il pranzo, ogni famiglia si riuniva in un unico posto insieme agli altri parenti. Le donne spiegavano sul terreno le loro tovaglie dove posavano con ordine i cibi che il giorno prima avevano preparato con cura. La tradizione voleva che il pasto iniziasse con una torta dolce di pandispagna accompagnata da fette di salame. I salami che si facevano con il maiale macellato in dicembre-gennaio. Subito iniziavano gli inviti da un gruppo all’altro, scambi di torta, di fette di salame ma soprattutto di assaggi di vino, bianco, rosso e rosato. Tutti bevevano, qualcuno anche troppo. È a questo punto che i poeti facevano udire le loro voci, stornellando fatti realmente accaduti, leggende varie di cavalieri, di fate, la Gerusalemme liberata, l’Orlando Furioso, la Pia dè Tolomei.
Era una festa popolare veramente tale, in quanto era la festa dell’intera comunità dell’altopiano dei Sibillini, a cui tutti partecipavano attivamente. Si banchettava insieme, si rideva alle strofe piccanti e satiriche dei menestrelli, ci si esaltava tifando per il poeta o narratore del proprio paese e ci si ammutoliva quando questi era in difficoltà nel trovare la frase giusta per rispondere in rima all’avversario.
Il culmine della Festa era nel primo pomeriggio, quando i cavalieri iniziavano a preparare i loro cavalli per la corsa. Durante tutta la mattinata, ogni cavaliere spiava il cavallo dell’avversario e cercava alleanze con altri cavalieri quando era evidente la superiorità del "nemico". Tutti potevano partecipare alla corsa purchè avessero un cavallo da montare. La gente si disponeva ai due lati della strada e ognuno tifava per il suo amico cavaliere o compagno di stazzo, le ragazze tifavano per i loro amorosi, le mamme per i loro figli.
La corsa non aveva regole, chi arrivava primo era il vincitore, quindi oltre ad un buon cavallo occorreva anche furbizia intelligenza e alleanze con altri cavalieri per poter battere il cavallo favorito.
Il premio, spesso, consisteva in un castrato che il vincitore, immediatamente e senza scendere di sella lo afferrava lo metteva di traverso davanti alla sella facendo un giro tra la folla per mostrare a tutti il trofeo vinto.
Verso le cinque del pomeriggio le donne più anziane, come se chiamate da una voce misteriosa,si alzavano dal posto dove erano con la famiglia, e cantando la canzone “ Madonna della Cona io ti prego” (canzone che ripetutamente invoca la Madonna della Cona per sconfiggere le guerre) si riunivano dentro la chiesetta e tutte insieme a voce alta cantavano, poi sempre cantando si incamminavano verso l’esterno, a pochi metri dalla Chiesetta avveniva la divisione, chi verso Castelluccio, chi verso Gualdo. A quel punto tutti i presenti alla festa smettevano di fare le loro faccende e seguendo le donne anziane si formavano le processioni che chiudevano la giornata alla Cona. Si tornava a Castelluccio, dove la sera la festa proseguiva con balli al suono dell’organetto, sfide a morra. A notte fonda si potevano udire le serenate cantate dai ragazzi sia a bene sia a dispetto e le Satire (negli ultimi tempi le scritte sui muri). Le prime erano fatte da ragazzi innamorati alla propria amata, ne cantavano le doti, le beltà e le virtù, quelle a dispetto invece erano cantate da ragazzi delusi dall’amorosa, la serenata ne sottolineava i difetti. Le satire venivano cantate in quartine dai poeti, specialmente quando erano un po’ alticci, esse si riferivano a fatti cose realmente accadute. Venivano cantate in modo che tutti riconoscessero il soggetto ma senza mai citarne il nome. Tutti assistevano con passione; a volte qualcuno del pubblico sostituiva il menestrello specialmente quando a questi si porgeva un bicchiere con il vino. Alla fine degli anni sessanta le satire sono state sostituite dalle scritte sui muri in quanto la vena poetica delle vecchie generazioni non ha avuto seguito con le nuove anche se queste sono più istruite.
Spesso il tutto finiva all’alba con molti partecipanti sfiniti, stanchi e assonnati, ma soddisfatti della festa passata.

Giuseppe Iacorossi

 

 

Bibliografia consultata.
TESTA V., 2006 - Una storia nella storia. Edizione a cura di Ettore Testa e parenti.